A seguito della mostra “a r i a” Il vuoto che arreda di DORODESIGN, giovani designers torinesi Dario Olivero (classe 1984) e Stefano Ollino (classe 1986), inaugurata il 7 Febbraio 2013 negli spazi di Viafarini DOCVA presso La Fabbrica del Vapore, abbiamo proposto alcune domande alla curatrice Francesca Fiorella per capire più da vicino l’allestimento della mostra incentrata sulla progettualità della produzione dei prodotti della collezione a r i a attraverso il gioco dell’assenza/presenza dell’oggetto mobile nel vuoto (aria).
Francesca Fiorella ha una formazione prettamente artistica; ha frequentato l’Accademia di Belle Arti di Brera. A una professionista abituata a trattare d’arte abbiamo voluto chiedere quali siano state le sue impressioni e riflessioni, se ce ne sono state, in materia di design e di autoproduzione.
Con grande precisione Francesca Fiorella, in collaborazione con Pietro Spoto e Studio Liquido, ha ideato un ambiente di grande impatto attraverso l’uso di materiali semplici assemblati in un’essenziale scenografia che accoglieva e coinvolgeva lo spettatore.
INTERVISTA
Fin da subito mi sorge spontanea una domanda: quali sono state le tue prime impressioni e reazioni sia a livello emotivo e personale che a livello artistico rispetto alla visione della collezione a r i a di Dorodesign?
Innanzi tutto devo dire che a r i a e i Dorodesign mi hanno colpito fin da subito. Aria, in particolare, mi ha entusiasmata per la sua nettezza e la sua onestà. Mi è sembrata espressione di qualcosa di necessario. Una risposta non tanto, e non solo, ad un problema di design ma un manifesto, una proposta, appunto, di lifestyle.
Da dove nasce l’idea di concentrare l’attenzione su un allestimento improntato sulle fasi progettuali del processo di ideazione del prodotto?
L’idea nasce naturalmente. Sono poco interessata alla staticità dell’oggetto in mostra e più attratta dal percorso, dal prodotto come risultato e fine dell’attività umana; come espressione di quell’intelligenza progettuale che valica i confini di genere.
La volontà espositiva è quella di contrapporre e nello stesso tempo di mostrare in parallelo le due fasi della produzione dei prodotti della collezione a r i a: la progettazione e l’utilizzazione. Pensi che l’intento della mostra sia stato raggiunto e che le persone lo abbiano colto?
Non si tratta di contrapposizione ma di continuità. L’intento è stato raggiunto, dal momento in cui, abbiamo documentato la progettazione e usufruito realmente del prodotto. Più che una mostra direi che è stata un’operazione “su e con” a r i a. La sedia A R I A è stata osservata nell’ambiente domestico di Viafarini Docva, sperimentata e documentata per un tempo lungo, prima e al di là, del momento espositivo. Considero questo periodo parte integrante dell’operazione e non una semplice preparazione alla mostra.
Rimanendo nella sfera dell’arte, tu che sei una curatrice, come ti sei sentita ad ideare e allestire questo tipo di mostra?
E’ stato molto stimolante. Sia nella fase di progettazione che in quella di realizzazione. Con sorpresa (per me che ho sempre trattato di arte) A R I A ha proposto questioni e generato riflessioni valide.
La nostra cultura è dominata dagli oggetti e dalla materialità; in “a r i a il vuoto che arreda” è il vuoto (aria) che, permettendo il movimento, determina la suddivisione dello spazio. Cosa è per te il vuoto? In che rapporto sta con i prodotti a r i a?
Ho sempre associato il vuoto a qualcosa di trascendentale, a una dimensione inaccessibile, impossibile. Nell’immaginario comune, poi, è un termine quasi negativo: il vuoto esclude la pienezza che è generalmente individuata come valore. Quindi è proprio la frase “il vuoto che arreda” scelta da Dorodesign per presentare a r i a, che mi ha colpito e spinto alla riflessione che poi ha generato l’intero progetto. Una frase, a mio parere, volutamente ambigua e coraggiosa.
Mi piace molto la descrizione dell’ambiente creato dai prodotti della linea a r i a come una sorta di “Socle du monde” domestico, per utilizzare un’espressione che rimanda a Manzoni. Potresti spiegare il significato di una tale definizione?
Ho voluto, citando Manzoni, portare a r i a su un terreno apparentemente non proprio. Questo mi ha permesso di cogliere l’attitudine di a r i a ad essere anche “altro” rispetto all’oggetto funzionante. Quindi a r i a come piedistallo per qualcosa che non è oggetto, ma vita: il mondo domestico; che concorre a qualificare come “opera” qualcosa che non è determinato ma determinante; che costituisce la qualità dello spazio e dell’esistenza delle persone, lo stile di vita.
Nel tuo percorso di studi e nel corso della tua esperienza lavorativa ti è mai capitato di confrontarti con prodotti di design? Quale opinione hai del design in generale? Lo consideri come una derivazione dell’arte o come una vera e propria operazione meccanica che nasce dalla Rivoluzione Industriale e dallo sviluppo tecnologico?
Non mi sono mai occupata professionalmente di design e ho affrontato il progetto con curiosità. Questa esperienza mi ha confermato l’esistenza di necessità vere e comuni che guidano le sensibilità e le intelligenze. Non ho idee certe rispetto al ruolo sociale del design nello specifico. Ma credo che l’uomo abbia molto bisogno di sviluppare idee intelligenti che si traducano innanzitutto in un nuovo stile di vita (nel senso più ampio del termine) e il design, grazie alla sua vocazione e alla sua storia, pare abbia in questo senso indubbiamente un vantaggio su altre discipline.
Eccoci arrivati all’ultima domanda: ti ritieni soddisfatta dell’esito della mostra?
Per me è stata un’esperienza molto significativa. Si è sviluppata con una fluidità e una naturalezza insperate. Tutto è nato e si è collocato al posto giusto e con il giusto peso. Attribuisco questa fluidità alla qualità dell’oggetto a r i a e al pensiero semplice ma efficace che lo sottende.
a cura di Eleonora Sangalli